• L’esigenza di allocare il proprio denaro in maniera consapevole deriva dalla necessità di controllare il rischio che inevitabilmente accompagna le scelte di investimento. Il rischio non è altro che la probabilità di ottenere un rendimento diverso da quello atteso.Questo aspetto è spesso trascurato dai trader, e dagli investitori in generale, nonostante rappresenti la chiave di volta del successo nel mondo finanziario per ciascun operatore, sia dilettante che professionista. La branca che studia la gestione del rischio è denominata risk management, dove il rischio non è altro che la propensione dell’individuo ad affrontare una perdita economica.
    Il nostro compito sarà, dunque, quello di assumere decisioni quanto più razionali in un business in cui l’elemento aleatorio è ineliminabile. Se il rischio non esistesse, la nostra scelta di investimento ricadrebbe certamente sull’attività finanziaria che presenta il più alto rendimento atteso. Ma, siccome il rischio esiste e non sarà mai eliminabile completamente, le nostre scelte verranno effettuate sulla base di un semplice rapporto: il risk/reward ratio, cioè il rapporto rischio/rendimento, argomento principale della Teoria di Portafoglio (Portfolio Theory). In questo modo andiamo a definire il rischio come un prezzo/costo da pagare per poter cogliere un’opportunità (“the price for opportunity”).Secondo la Portfolio Theory possiamo avere tre modelli principali di investitore in base al proprio comportamento: propenso al rischio; indifferente al rischio; avverso al rischio. Quest’ultimo modello viene scelto come base per iniziare a costruire un efficiente meccanismo di allocazione delle risorse, razionalizzando nel migliore dei modi le scelte di investimento.Il nostro investitore avverso al rischio è colui che ad un rischio minimo associa un rendimento atteso soddisfacente. Egli starà più attento a non perdere che a cercare di guadagnare. Il soggetto così presentato è una persona molto realista ed attendista. Non si lancerà mai in operazioni scriteriate e ad alto rischio, anche se il rendimento atteso dovesse essere alquanto elevato. Per meglio capire il profilo psicologico di questo nostro investitore proiettiamoci per un attimo nel gioco del poker. Supponiamo di avere un full, con il nostro avversario che ha puntato una cifra altissima. Il piatto è molto ricco. Noi, però, nonostante il rendimento atteso sia molto elevato, desisteremo dal vedere le carte in quanto il rischio assunto sarebbe troppo elevato. E se il nostro avversario avesse in mano una scala reale? La perdita risulterebbe eccessivamente elevata e non sostenibile in base al nostro grado di sopportazione del rischio.
    Questo nostro investitore “modello” non deterrà mai una sola security ma costruirà un “portafoglio” di attività finanziarie dove, per calcolarne il rendimento atteso, andremo a sommare il rendimento dei singoli asset moltiplicandolo per il peso che hanno nel portafoglio. Chiariamo il concetto con un esempio.

    Attività finanziaria
    Rendimento atteso (R)
    Peso (p)
    R * p
    A
    3%
    60%
    1,8%
    B 10% 30% 3,0%
    C 15% 10% 1,5%
    TOT 6,3%

     

    La tabella ci indica che il rendimento atteso del portafoglio è del 6,3%, ottenuto sommando i rendimenti di ogni singola security. Da notare come l’attività finanziaria ‘B’ incide non poco sul rendimento atteso totale del portafoglio, in quanto da sola vale più o meno la metà del totale.

    Abbiamo visto, dunque, come è possibile calcolare il rendimento atteso di un portafoglio. Ma non vi sembra che manchi qualcosa? Ed il rischio lo abbiamo dimenticato? Per calcolare il rischio di un portafoglio non è sufficiente sommare la volatilità dei rendimenti delle singole attività o scarto quadratico medio dei rendimenti (cioè la variabilità dei rendimenti nel tempo). Ciò che risulta importante è il modo in cui i rendimenti si comportano l’uno rispetto all’altro (covarianza dei rendimenti). Chiariamo il tutto con un esempio. Supponiamo di avere in portafoglio azioni Eni, Erg e Saipem, cioè tre titoli appartenenti allo stesso settore, cioè quello petrolifero. Siccome sono azioni fortemente correlate tra di loro, è molto probabile che i prezzi si muoveranno in maniera simile. In questo modo non abbiamo assunto tre posizioni ma siamo esposti con una sola posizione sul settore energetico con un rischio pari a tre volte quello di ogni singola posizione.

    Quello di cui stiamo parlando è certamente il contributo più importante della Portfolio Theory, cioè l’analisi del comportamento congiunto dei rendimenti dei vari asset detenuti in portafoglio.
    Ciò che andremo a fare è costruire un portafoglio composto da attività finanziarie poco correlate tra di loro attraverso il principio della diversificazione delle risorse. Quando siamo alle prese con un portafoglio diversificato non diventa tanto importante lo scarto quadratico medio dei rendimenti (la variabilità dei rendimenti in un determinato periodo di tempo, ricordate?), ma ciò che interessa particolarmente è verificare il modo in cui ogni asset detenuto in portafoglio è correlato con gli altri. In pratica dobbiamo valutare l’impatto di una singola attività finanziaria sul rischio totale di portafoglio, in quanto ad esempio potrebbe risultare che titoli con elevato scarto quadratico medio abbiano un lieve impatto sullo scarto quadratico medio del portafoglio totale diversificato oppure che titoli con un basso scarto quadratico medio abbiano una forte incidenza sullo scarto quadratico medio del portafoglio totale.

    Qual è allora il modo migliore per valutare l’efficienza della gestione di un portafoglio? A questo proposito esiste un ottimo indicatore utile per valutare il rischio di un titolo rispetto a quello dell’intero mercato. Il rapporto tra il rischio di un titolo ed il rischio associato all’intero mercato viene chiamato coefficiente Beta (?), che è appunto la parte di rendimento del nostro asset dovuto all’andamento del mercato, cioè alla correlazione tra i vari asset. Con questo coefficiente andiamo a scomporre in due parti il rendimento di un titolo: da un lato abbiamo il rendimento legato all’andamento del mercato, dall’altro quello “slegato” dall’andamento del mercato stesso.
    Dunque, il rendimento di un asset generico i (Ri) è uguale alla parte “slegata” dall’andamento del mercato (?i) più la parte del rendimento dovuto all’andamento del mercato (?i * Rm). Il coefficiente ?i indica quanto è sensibile un determinato titolo ai movimenti del mercato. Se ?i è uguale a 1, il nostro titolo sarà rischioso quanto il mercato. Se ?i è maggiore di 1, il nostro asset farà meglio (o peggio) del mercato stesso. Infine, se ?i è minore di 1, il nostro asset varierà in misura inferiore rispetto al mercato. Il coefficiente Beta non solo ci aiuta a misurare il grado di rischiosità del singolo asset ma consente anche una più facile controllabilità del rischio totale di portafoglio. Ciò vuol dire, dunque, che la misura del rischio del nostro portafoglio dipende dall’indice Beta.

    Il Beta viene determinato su serie storica, calcolando per ogni singolo titolo le oscillazioni medie dei prezzi rispetto al mercato evidenziate nel passato. Generalmente dobbiamo avere a disposizione una serie storica di quotazioni significativa, almeno un anno. Nell’ambito della misurazione del rischio complessivo di portafoglio, il modo più appropriato di costruire un portafoglio efficiente in termini di rapporto rischio/rendimento non è avere asset senza rischio ma avere una miscela di attività finanziarie caratterizzate da un buon potenziale di rendimento. Infatti, un asset rischioso ma dotato di bassa correlazione con altre attività presenti in portafoglio può certamente ridurre il rischio complessivo del portafoglio stesso.

    Partendo da questi assunti possiamo far riferimento al Capital Asset Pricing Model (CAPM), cioè il modello per il pricing delle attività finanziarie. Utilizzando questo modello andiamo semplicemente ad individuare la motivazione per la quale, a parità di condizioni, il rendimento atteso di un titolo rischioso deve essere superiore a quello di un titolo privo di rischio. La formula del CAPM è la seguente: Ri = Rf + ? * (Rm – Rf), dove Ri è il rendimento atteso del titolo rischioso che si ottiene sommando al tasso corrente privo di rischio (Rf, task-free) il premio per il rischio (dato dalla differenza tra il rendimento dell’investimento in un titolo rischioso, Rm, ed il rendimento dell’investimento in titoli privi di rischio, Rf) moltiplicato per il coefficiente Beta (?), che rappresenta la volatilità caratteristica di quel particolare titolo rischioso. Da questa formula deriva che una variazione in aumento del tasso dei titoli privi di rischio (che possono essere titoli di Stato o titoli corporate ad alto rating) determina un proporzionale incremento del rendimento atteso per il nostro titolo rischioso e viceversa. Il coefficiente Beta rappresenta la variabile fondamentale di questa formula: infatti, un titolo più rischioso (?>1) dovrà offrire, rispetto ad un titolo poco rischioso (?<1) o “difensivo”, un rendimento atteso più elevato.

    Effetuiamo ora un esempio pratico su come calcolare il rendimento di un titolo rischioso in base al CAPM. Supponiamo che per un titolo azionario “a” il tasso risk-free (Rf) sia pari al 5%, il premio per il rischio sia del 4,5% ed il Beta è pari a 1,5. Qual è il rendimento atteso di questo titolo azionario? Ra = 5% + 1,5 * (9,5% – 5%) = 5% + 6,75% = 11,75%. Un altro titolo azionario “b” presenta invece, a parità di condizioni, un Beta pari a 0,5. Quindi avremo: Rb = 5% + 0,5 * (9,5% – 5%) = 5% + 2,25% = 7,25%. Abbiamo dimostrato così come il rendimento atteso per titoli ad alto Beta sia superiore a quelli a basso Beta. Più l’investimento che scelgo è rischioso, più devo guadagnare rispetto ad un puro tasso di interesse.

    Dunque, il “segreto” della diversificazione è nella correlazione tra i rendimenti delle varie attività finanziarie che costituiscono il nostro portafoglio “ideale”. La Teoria di Portafoglio ci fornisce a questo proposito tutti gli strumenti necessari per costruire un portafoglio con asset che, essendo poco correlati fra di loro, riduce enormemente il rischio che invece si avrebbe detenendo asset non scelti attraverso questo modello.
    Nella prossima lezione inizieremo a “familiarizzare” con i concetti distintivi del money management al fine di avere un’adeguata preparazione nell’ambito della gestione del proprio denaro controllando tutte le componenti del rischio. Ciò che vi sembrava incontrollabile risulterà ai vostri occhi improvvisamente sotto controllo!

    Articolo a cura di Nicola D’Antuono
    Per contatti: nick_82@virgilio.it

    Bibliografia
    – Massimo Intropido, La Teoria di Portafoglio (2002), Luca Angelucci Editore
    – Borsa: come scegliere le azioni vincenti (2003), supplemento de “Il Sole 24-Ore Plus”
    – Marco Bertuglia e Alessandro Cominelli, Manuale del trader professionista (2003), Trading Library Srl
    – Enrico Malverti, Money management professionale (2005), Experta S.p.A.

  • In questo breve corso, strutturato in diversi articoli, si cercherà di descrivere in modo semplice ma preciso i principi dell’analisi tecnica candlestick. Fondamentalmente, sono due i modi di rappresentazione dei dati di borsa che ogni giorno il 99% dei traders studia: il grafico a barre e il grafico a candele.
    Lo studio del grafico a candele, è una disciplina molto antica e ricca di fascino, tale da essere diventata una vera e propria branchia dell’Analisi tecnica chiamata candlestick analisys.

    Le mie prime operazioni di trading erano caratterizzate da oscillazioni molto evidenti nelle performance cosicchè, nonostante riuscissi ad ottenere spesso dei buoni risultati, a volte capitava di imbattermi in perdite molto consistenti che alteravano non poco il mio capitale economico e psicologico, tanto da provocarmi stress e mancanza di lucidità.

    A quel punto capii che, alle tecniche di trading più avanzate che conoscevo, dovevo affiancare un sistema di regole prefissate con la funzione di mantenere il rischio ad un livello soggettivamente accettabile.Fu così che iniziai a considerare il problema della gestione del rischio con il massimo rispetto, conscio che esso è, e sarà sempre, il nostro compagno di viaggio nell’affascinante mondo del trading.

    La cosa fondamentale è che il mercato non può essere controllato: è un’entità autonoma che si comporta in maniera irrazionale, muovendosi di moto proprio al di là delle nostre aspettative e previsioni. In questo contesto, l’unica cosa da noi controllabile è il rischio, che rappresenta l’aspetto fondamentale nel processo operativo degli investimenti e della speculazione finanziaria.

    La maggior parte dei trader è da sempre alla ricerca di un trading system perfetto per guadagnare fortune sui mercati finanziari (il cosiddetto “Sacro Graal”). Essi vanno però alla ricerca di ciò che non esiste! Al contrario, i più grandi trader di tutti i tempi si concentrano sulla gestione del rischio della posizione assunta, mettendo in preventivo una perdita massima e prestando attenzione a non assumere una posizione con una somma troppa elevata in base al capitale totale posseduto. Il loro approccio al mercato è caratterizzato da un unico denominatore comune: il money management (letteralmente, “gestione del capitale”).

    Il money management non è altro che un sistema di regole prestabilite che deve indicarci quanto denaro investire in una singola operazione (trade) in modo tale da preservare il capitale totale a nostra disposizione nel caso in cui le cose dovessero andare male.

    Come ricorda Larry Williams, <> ed è per questo che dobbiamo essere consapevoli che non potremmo mai realizzare il 100% dei trade vincenti.Siccome non abbiamo la palla di vetro per prevedere il futuro, non possiamo conoscere quali trade saranno vincenti e quali no, per cui risulta chiara la necessità di proteggerci con strumenti che salvaguardino il nostro capitale economico e psicologico.

    Il money management si compone di due branche fondamentali inscindibili fra di loro: risk management (“gestione del rischio”) e position sizing. La prima analizza il rischio legato alla posizione assunta sul mercato; la seconda ci indica con quanto capitale entrare per ogni trade aperto sul mercato e come ripartirlo nei vari asset di portafoglio.

    Attraverso lo studio di queste discipline cercheremo di capire gli errori che portano la maggior parte dei trader a perdere soldi in Borsa. La maggior parte della gente perde denaro sui mercati finanziari per due fattori principali: scarsa preparazione tecnica e psicologica; mancanza di un piano di money management.

    La gente pensa che utilizzando le tecniche dei trader più famosi possa raggiungere chissà quali ricchezze. Fin quando le cose vanno bene e si riesce a guadagnare tutto riga liscio, ma cosa accade nel momento in cui iniziano a verificarsi delle perdite?

    E’ a questo punto che nascono i veri problemi. La maggior parte delle persone è impreparata psicologicamente a sopportare le perdite per cui, non appena inizia a segnare una striscia negativa di operazioni, perde fiducia nel proprio operato ed abbandona quella strategia prima ancora che riprenda a dare i suoi frutti.

    Un altro problema deriva dalla sottocapitalizzazione con cui gran parte dei trader affrontano il mercato. Infatti, molti trader operano sui mercati finanziari, addirittura con strumenti derivati (opzioni, futures, ecc.), nonostante dispongano di un capitale insufficiente a sostenere una serie di perdite consecutive, assumendosi tra l’altro rischi molto elevati.

    Queste persone dovrebbero dotarsi soprattutto di un sistema di money management che mantenga le perdite al livello tale da garantirsi la sopravvivenza sul mercato nel lungo periodo, lasciando poi correre i profitti al momento opportuno. E’ questo l’obiettivo principale del money management: minimizzare le perdite.

    Gli americani dicono “morte, tasse e perdite sono le tre certezze della vita”. E’ per questo motivo che bisogna imparare a gestire le perdite in modo equilibrato ed adottare il giusto atteggiamento per affrontarle emotivamente: sarà il passo più importante per avere successo in Borsa!

    La gente dovrebbe sapere quanto sia difficile recuperare denaro dopo aver subito una grossa perdita, in quanto sarà richiesta una performance sempre più elevata in funzione delle dimensioni della perdita. Di seguito viene riportata una celebre tabella che indica la performance necessaria per recuperare una determinata percentuale di perdita.

    TABELLA 1
    Perdita
    Performance
    10%
    11,11%
    20% 25,00%
    30% 42,85%
    40% 66,66%
    50% 100%
    60% 150%
    70% 233%
    80% 400%
    90% 900%
    100% K-azzerato

    Il calcolo della performance richiesta per recuperare il capitale si effettua sulla base di questa formula: RP = 100/ (100 – P) * P, dove RP è la performance necessaria per ritornare al punto di pareggio, mentre P è la percentuale di perdita registrata.

    Come è possibile notare, perdendo denaro si va a disporre di un capitale sempre inferiore per poter continuare a fare trading, riducendo così la propria capacità di guadagnare. Una volta azzerato completamente il capitale (K) dovremmo abbandonare l’attività. Il grafico riportato in basso ci mostra come la percentuale di recupero (% to recovery) cresca in modo esponenziale rispetto alla perdita percentuale (% of loss).

    A questo punto credo sia chiaro a tutti l’importanza di mantenere le perdite entro un determinato livello, andando a contenere il drawdown al livello più basso possibile.

    Il drawdown non è altro che la quantità di denaro (in percentuale rispetto al capitale complessivo) persa facendo trading. Si inizia a calcolare il drawdown solo nel caso in cui si registri un trade in perdita e si prosegue fintanto che la posizione continua a registrare nuovi minimi dell’equity line, cioè la linea che rappresenta l’evoluzione combinata dei profitti e delle perdite.

    Supponiamo, ad esempio, di avere a disposizione sul nostro conto corrente 10.000 euro. Il primo trade ha portato ad una perdita di 2.000 euro, per cui il drawdown è del 20%. Il capitale rimasto sul conto è di 8.000 euro. Con la seconda operazione otteniamo un guadagno di 1.000 euro, mentre con la terza subiamo una nuova perdita di 2.000 euro.

    Come calcoliamo ora il drawdown? Il conteggio è molto semplice. Agli 8.000 euro rimanenti sul conto dopo la prima operazione sommiamo i 1.000 euro guadagnati e sottraiamo i 2.000 euro persi (8.000 + 1.000 – 2.000 = 7.000 euro, cioè siamo arrivati ad una perdita pari al 30% del capitale iniziale di 10.000 euro).

    Il massimo drawdown, invece, indica la quantità di denaro persa prima di tornare al punto di pareggio (break-even point). Ad esempio, abbiamo un conto iniziale di 10.000 euro e, prima di tornare al punto di pareggio, subiamo una perdita di 3.000 euro. Il massimo drawdown sarà dunque del 30%.

    Si tratta di un concetto che bisogna inserire a caratteri cubitali nella propria mente di trader in quanto, come indicato in precedenza nella tabella 1, al crescere della perdita percentuale verrà richiesta una sempre maggiore performance prima tornare al break-even point.
    In base ad uno studio condotto da Mark Boucher, affermato gestore di hedge fund, è emerso che tutti i migliori trader esercitano il massimo sforzo per mantenere il loro drawdown nell’ambito del 20-30% o meno.

    Quando si fa trading bisogna essere consapevoli dei risultati a cui si può arrivare quando si subisce una perdita considerevole. Infatti, non solo si perde denaro reale ma si rischia anche di perdere definitivamente tutte le possibilità di continuare questa attività.
    Prendendo coscienza di questo principio è possibile sviluppare una sorta di “paura positiva” che aiuterà il trader a mantenere le posizioni entro un limite ragionevole e, dunque, a minimizzare le perdite.

    In definitiva: bisogna avere il massimo rispetto per il rischio allo scopo di assicurarsi una prolungata permanenza sui mercati finanziari.
    Infatti, ciò che davvero conta è tenere sempre sotto controllo il rischio del singolo investimento e quello dell’intero portafoglio al fine di avere una curva cumulativa dei profitti caratterizzata da una crescita costante senza grandi picchi e successive importanti ricadute di rendimento.

    La prossima settimana andremo ad analizzare in dettaglio gli strumenti operativi da utilizzare per gestire nel migliore dei modi il rischio d’investimento.

    Articolo a cura dI Nicola D’Antuono
    Per contatti: nick_82@virgilio.it

    Bibliografia:
    – Stefano Calamita, Mai più perdite in borsa (2003), Experta S.p.A.
    – Eddie Kwong, Money Management per il trader dinamico (2001), Trading Library Srl
    – Dave Landry, Guadagnare in borsa con lo swing trading (2001), Trading Library Srl
    – Enrico Malverti, Money management professionale (2005), Experta S.p.A.

  • In questo breve corso, strutturato in diversi articoli, si cercherà di descrivere in modo semplice ma preciso i principi dell’analisi tecnica candlestick. Fondamentalmente, sono due i modi di rappresentazione dei dati di borsa che ogni giorno il 99% dei traders studia: il grafico a barre e il grafico a candele.
    Lo studio del grafico a candele, è una disciplina molto antica e ricca di fascino, tale da essere diventata una vera e propria branchia dell’Analisi tecnica chiamata candlestick analisys.Nello scorso articolo abbiamo puntato l’indice su un elemento fondamentale: ridurre al minimo le perdite. Così facendo andremo a limitare i rischi insiti negli investimenti finanziari salvaguardando allo stesso tempo il capitale iniziale.Attraverso il risk management (letteralmente “gestione del rischio”) saremo in grado di costruire un’adeguata strategia d’uscita dal mercato quando le cose non vanno così come auspicato e riusciremo a lasciar correre i profitti quando la posizione da noi assunta ha preso la giusta direzione.Riconoscendo tempestivamente gli errori commessi sarà possibile chiudere una posizione senza subire perdite consistenti in grado di alterare negativamente il prosièguo della nostra attività. Ogni trader deve essere provvisto di un piano d’uscita dal mercato allo scopo di avere una triplice funzione:
    1- limitare il rischio assunto in ogni trade;
    2- rischiare soltanto una piccola percentuale del capitale a propia disposizione in ogni trade;
    3- ridurre il rischio totale di portafoglio in modo tale che un’eventuale perdita sia più facilmente recuperabile.

    Nel momento in cui un trader decide di assumere una posizione sul mercato, indipendentemente dall’arco temporale, deve pianificare il proprio intervento in varie sequenze:
    1- entrare in acquisto (o con una vendita allo scoperto) su uno strumento finanziario in base a determinate regole e filtri operativi, nonché sulla base di un rapporto rischio/rendimento accettabile (minimo 1:2, meglio 1:3);
    2- piano d’uscita per limitare eventuali perdite;
    3- piano d’uscita per far correre i profitti.
    Gli strumenti operativi che ci consentono di mettere in pratica un appropriato sistema di uscita dal mercato, sia per limitare le potenziali perdite sia per conseguire gli eventuali profitti, sono lo stop loss, il profit target ed il trailing stop.

     

    STOP LOSS

    Lo strumento fondamentale che aiuta il trader ad evitare forti perdite in conto capitale è lo stop loss (letteralmente “ferma la perdita”), cioè il livello massimo di perdita accettabile raggiunto il quale siamo disposti a chiudere una determinata operazione speculativa, grazie ad un prestabilito ordine di liquidazione.

    Attraverso lo stop loss andremo ex ante a definire un “limite” alla perdita potenziale. Supponiamo di aver acquistato un titolo a 20 euro aspettandoci un rialzo fino a 25 euro. Se, anziché salire, i prezzi scendono è probabile che siamo nella direzione sbagliata. Uno stop loss fissato ex ante a 18 euro avrebbe contenuto le perdite derivanti da una discesa improvvisa dei prezzi.
    Esistono varie tipologie di stop di protezione in base alla tecnica con cui essi vengono calcolati. Non esiste certamente la metodologia universalmente valida, per cui spetterà al trader fissare lo stop loss in base al proprio grado di sopportazione delle perdite.

    Stop loss in %

    Con questo tipo di stop loss andiamo a fissare ex ante il prezzo di uscita come percentuale fissa sul prezzo d’entrata. Ad esempio abbiamo acquistato azioni ABC a 15 euro e decidiamo di fissare uno stop loss al 3%. Per calcolare il livello d’uscita bisogna effettuare un semplice calcolo: 15 – (15*3/100) = 15 – 0,45 = 14,55 euro. Logicamente, l’ampiezza (in percentuale) del nostro stop loss varierà a seconda del time frame scelto per la nostra operatività. Infatti, per un investitore con un’ottica di medio-lungo periodo l’ampiezza dello stop di protezione tenderà ad allargarsi, mentre per uno speculatore che opera nel breve termine lo stop tenderà a ridursi.

    Il problema in cui si incorre utilizzando questa tipologia di stop è che non si va a tenere conto di livelli tecnici (supporti, resistenze, massimi, minimi) dove, generalmente, avviene una reazione dei prezzi, rischiando in questo modo di uscire prematuramente dal mercato. Supponiamo, ad esempio, di aprire una posizione long sul titolo ABC a 12 euro fissando uno stop loss del 2%, cioè a 11,76 euro.

    Ipotizziamo, inoltre, che i prezzi incrocino il nostro ordine di liquidazione andando poi a rimbalzare, riprendendo così la propria salita, su un supporto posto appena sotto il nostro livello di stop, diciamo a 11,70 euro. In questa maniera il mercato ci ha “beffati”: la nostra decisione d’acquisto era fondata, ma il nostro stop non era posizionato in modo corretto. Dunque, se si utilizza uno stop loss in percentuale bisogna verificare la presenza di livelli “critici” del mercato nei pressi del nostro ordine di liquidazione.

    Stop loss economico
    Con questo sistema non si va ad intaccare il proprio livello “limite” di sopportazione delle perdite, preservando tra l’altro il capitale totale a disposizione. Supponiamo che un investitore abbia un grado di sopportazione delle perdite pari a 100 euro per ogni trade. Ciò vuol dire che se egli ha aperto una posizione in acquisto su 1000 azioni ABC a 20 euro, il suo livello di stop loss sarà 19,90 euro. Questo metodo porta ad inconvenienti analoghi allo stop in percentuale.

    Stop loss basato su livelli tecnici
    Con questa tipologia di stop andiamo ad adattare il nostro punto d’uscita a livelli tecnici segnalati dal mercato, ad esempio la rottura di supporti, resistenze, massimi, minimi, trendline, ecc. Jeffrey Owen Katz e Donna L. McCormick segnalavano una corretta strategia d’uscita quando avveniva la rottura di una trendline, tenendo conto però di un valore di penetrazione della stessa.

    Stop loss basati sulla volatilità
    Con questa metodologia è possibile congetturare i livelli di prezzo dove il mercato potrebbe giungere durante il periodo in cui si prevede di mantenere aperta la posizione. Quando la volatilità tende a contrarsi è chiaro che l’entità dello stop loss tenderà a stringersi; al contrario, in periodi di elevata volatilità, l’entità dello stop si allargherà. In questo modo risulta possibile definire lo stop di protezione senza tener conto delle oscillazioni casuali dei prezzi, dovute magari ad un rumore di fondo del mercato, rischiando di essere “buttati fuori” dal mercato prematuramente.

    Supponiamo, ad esempio, che un titolo abbia una volatilità media di quattro punti percentuali giornalieri e che vogliamo mantenere aperta la posizione per più giorni. La cosa più logica da fare in queste circostanze è posizionare lo stop abbastanza lontano dal prezzo d’entrata, in quanto uno stop stretto rischierebbe di “saltare” facilmente visto che ci troviamo in condizioni di elevata volatilità. Ciò però porta l’inconveniente di posizionare lo stop troppo lontano dal prezzo di ingresso, assumendo così un rischio alquanto elevato. Inoltre, non è detto che il mercato si comporti come in passato andando a ritestare i valori medi. Esistono varie strategie basate sull’adeguamento dello stop loss alla volatilità. Le più importanti sono quelle costruite sulla volatilità storica (HV, Historic Volatility) e sull’average true range (ATR).

    Stop loss in base al tempo
    E’ un modo di fissare lo stop molto discrezionale in quanto si decide di uscire dalla posizione se questa, dopo un certo numero di giorni, non ha portato al movimento sperato. In pratica rimanendo bloccati in un trade per un certo periodo, senza che questi inizi a muoversi decisamente nella direzione attesa, si rischia di impegnare liquidità a discapito di nuove potenziali opportunità presenti sul mercato.

    Stop loss sui pattern
    Utilizzando questa tipologia di stop loss si definisce un punto d’uscita non appena si verifica un pattern che identifica un potenziale cambiamento nell’equilibrio tra compratori e venditori. Uno dei pattern che maggiormente può essere utilizzato per liquidare la posizione è il key reversal day, cioè un pattern d’inversione del trend formato da due barre. La figura che segue mostra un key reversal day ribassista su Banca Mps dopo un forte allungo dei prezzi. Il punto d’uscita sarebbe stato sulla chiusura della seconda barra del pattern o il giorno seguente in apertura.

    GESTIONE DELLE POSIZIONI APERTE

    Una volta stabilito l’entità dello stop loss iniziale bisogna gestire al meglio la posizione aperta. Gli strumenti che ci permettono di controllare il rischio della posizione assunta, man mano che essa tende a muoversi in una certa direzione, sono il trailing stop ed il profit target.

    Profit target
    Una volta aperta la posizione sul mercato, oltre a definire l’entità dello stop loss, dobbiamo identificare un target, cioè un punto d’arrivo dove presumibilmente prenderemo profitto. Esistono diversi modi per individuare un potenziale livello di obiettivo: in base ad un rendimento atteso in percentuale; in base ad un predefinito valore economico, in termini di rendimento atteso; in prossimità di supporti o resistenze.

    I primi due casi prevedono una gestione della posizione molto semplice e non sempre raccomandabile in quanto si rischia di non poter cavalcare prolungate e definite tendenze. Un buon modo, invece, di proteggere almeno una parte dei profitti teorici conseguiti è quello di liquidare metà posizione in prossimità di supporti e resistenze. In questo modo mettiamo da parte un discreto guadagno in attesa di sapere se il mercato rompa o meno il livello critico con cui si sta confrontando. In quel caso saremo pronti a partecipare all’esplosione del momentum che inevitabilmente viene innescato al superamento di certi livelli di prezzo.

    Una strategia che può contenere ancor di più il rischio è certamente quella del 2*1, cioè si liquida metà posizione al livello di prezzo dove si realizza un guadagno pari all’entità del rischio iniziale assunto. Una volta raggiunto questo primo obiettivo di prezzo si solleva lo stop a pareggio, cioè si porta lo stop loss al livello con cui siamo entrati in posizione.

    Facciamo un esempio pratico. Supponiamo di aver acquistato 400 azioni ABC a 22 euro e di aver fissato lo stop loss a 21,40 euro. Il nostro primo target verrà raggiunto a 22,60 euro [22 + (22 – 21,40)], dove venderemo 200 azioni. Ora, a meno che non si verifichino straordinari gap overnight, la cosa peggiore che ci potrebbe capitare è quella di liquidare la restante posizione in pareggio. Così facendo non ci precludiamo la potenziale possibilità che i prezzi possano continuare il loro movimento ascendente.

    L’ultima situazione è quella che si potrebbe verificare a seguito di movimenti parabolici del mercato, cioè quando si realizzano forti movimenti dei prezzi. La cosa migliore da fare in queste situazioni, in un’ottica speculativa, è quella di liquidare interamente la posizione in chiusura di giornata, o al massimo il giorno successivo in apertura. In questa maniera riusciamo ad evitare la probabile congestione a cui potrebbero essere soggetti i prezzi. Nel grafico seguente, Benetton Group, a seguito del breakout del doppio massimo di area 7,90 euro, forma una barra ad ampio range. Si noti come i prezzi, a seguito della formazione di questa enorme barra, inizino a congestionare. E’ per questo motivo che il momento migliore per liquidare la posizione sarebbe stato in chiusura di giornata.

    Trailing stop
    La tecnica del trailing stop serve per seguire la posizione man mano che essa inizia a svilupparsi sollevando o abbassando lo stop loss, a seconda che siamo rispettivamente in posizione d’acquisto o in posizione di vendita allo scoperto. Si tratta, dunque, di livelli di uscita “dinamici”. Ipotizziamo di aver acquistato un titolo a 50 euro e di aver fissato uno stop loss iniziale a 48 euro. Il trailing stop verrà sollevato progressivamente verso 50, 52, 55, ecc. dal momento in cui i prezzi aumentano di valore.

    Chiaramente non esiste una tecnica di trailing stop che ci assicuri, ex ante, il miglior risultato. Uno dei modi per utilizzare la tecnica del trailing stop è quella di posizionare lo stop loss sul minimo più basso degli ultimi tre giorni, se siamo in un trend al rialzo, oppure sul massimo degli ultimi tre giorni, se siamo in un trend al ribasso. La logica sottostante a questa metodologia è che, quando un titolo si trova in forte trend, è difficile che ritracci per molti giorni consecutivamente.

    Un altro modo per posizionare il trailing stop è basato sui pattern grafici. La tecnica prevede di andare a collocare lo stop sul livello tecnico più significativo, ad esempio su un supporto (per una posizione in acquisto) o su una resistenza (per una posizione in vendita). Se il mercato è in trend, non dovremmo infatti andare oltre questi livelli di prezzo. Nel caso in cui, invece, vengano violati questi “punti critici” del mercato, è probabile allora che si verifichi un’inversione di tendenza.

    Articolo a cura del Nicola D’Antuono
    Per contatti
    : nick_82@virgilio.it

    Bibliografia:
    – Eddie Kwong, Money Management per il trader dinamico (2001), Trading Library Srl
    – Enrico Malverti, Money management professionale (2005), Experta S.p.A.
    – Pietro Di Lorenzo, Trading part time (2005), Trading Library Srl

In questo breve corso, strutturato in diversi articoli, si cercherà di descrivere in modo semplice ma preciso i principi dell’analisi tecnica candlestick. Fondamentalmente, sono due i modi di rappresentazione dei dati di borsa che ogni giorno il 99% dei traders studia: il grafico a barre e il grafico a candele.
Lo studio del grafico a candele, è una disciplina molto antica e ricca di fascino, tale da essere diventata una vera e propria branchia dell’Analisi tecnica chiamata candlestick analisys.

Per position sizing intendiamo una serie di regole che devono indicarci quanto denaro investire in una singola operazione. Prima di passare in rassegna le varie tecniche di position sizing che hanno fatto le fortune dei grandi trader, chiariamo un concetto fondamentale che molti trader tendono a tralasciare.

Prima di aprire una posizione, e quindi decifrare quanto capitale utilizzare, bisogna partire con un vantaggio probabilistico rispetto alla controparte che ci troviamo di fronte, cioè il mercato. Nel gioco d’azzardo è bene sapere che lo scommettitore (il “gambler”) parte con uno svantaggio rispetto al banco; nel gioco “Testa o Croce” esistono le stesse probabilità che esca Testa o Croce se ripetiamo il lancio per un numero infinito di volte. Nel trading, e quindi nell’ambito della speculazione finanziaria, è possibile partire con un vantaggio competitivo rispetto al mercato!
Partire con un metodo basato sulla casualità pura (tecnicamente si dice con un edge = 0) o addirittura con uno svantaggio (edge < 0) non è un buon inizio. Bisogna dunque spostare gli equilibri a nostro favore, cioè portare l’edge > 0. In questo modo, quando guadagneremo, riusciremo a trarre profitto più di quanto perderemo. La formula dell’edge è la seguente:

edge = (vincita media * probabilità) – (perdita media * probabilità)

In pratica, anche se avessimo perdite e guadagni dello stesso ammontare, una probabilità superiore che i profitti venissero realizzati con maggiore frequenza rispetto alle perdite ci porterebbe ad avere un edge > 0.

Ralph Vince, eccezionale matematico, affermava che in un gioco caratterizzato da un’aspettativa matematica negativa non esiste alcun sistema di money management in grado di farci vincere. Dunque, è inutile andare a studiare le tecniche di position sizing se si parte con uno svantaggio nei confronti del mercato. E’ meglio non iniziare affatto l’attività di trader poiché pena l’azzeramento del nostro conto corrente.

Il nostro atteggiamento deve discostarsi da quello tipico dello scommettitore che dopo ogni perdita aumenta o addirittura raddoppia il capitale con la speranza di recuperare ciò che ha perduto in precedenza. Si tratta di un comportamento che ben presto porterà alla rovina. Supponiamo, ad esempio, di disporre di un capitale iniziale di 6000 euro e che dopo ogni perdita raddoppiamo la posta. Ipotizziamo, inoltre, di incappare in una prima perdita di 1000 euro e poi in altre due perdite consecutive. Il risultato sarà: 6000 – 1000 – 2000 – 3000 = 0. Abbiamo dilapitato con solo tre operazioni tutto il nostro capitale!

Un passo importante è quello di considerare l’esito di ogni trade in modo “indipendente” da quello dell’operazione precedente. Si tratta di un principio assoluto e senza il quale qualsiasi considerazione legata alla gestione del capitale perderebbe valore. Infatti, se esistesse dipendenza tra un trade precedente e quello successivo, sarebbe possibile realizzare una strategia di money management che vari il capitale investito in funzione dell’andamento dei trade precedenti.

Dunque, il nostro vantaggio rispetto al mercato dipende da due fattori:
1) il guadagno medio in ogni operazione;
2) la probabilità di successo da un punto di vista statistico.
Se le probabilità di successo risultano superiori al 50%, a parità di altre condizioni, il valore massimo del nostro capitale da investire potrà aumentare senza accrescere il rischio di perdita, man mano che si continua a guadagnare e viceversa, diminuendo il valore di F (cioè il capitale da utilizzare in ogni trade) non appena aumentano le nostre perdite.

Un aspetto importante da non sottovalutare è il giusto livello di capitalizzazione in funzione del rischio assunto. Chi opera con strumenti finanziari derivati (opzioni e futures) deve essere consapevole che bisogna avere una cospicua somma di denaro a disposizione sul proprio conto corrente. A questo proposito occorre calcolare il livello di massimo drawdown (cioè l’ammontare massimo della perdita o delle perdite consecutive avvenute in passato) del proprio trading system e moltiplicarlo per 1,5 (che sembra il valore più appropriato). Si aggiungono poi i margini richiesti dal proprio broker. Ipotizziamo di operare con un solo contratto sullo S&P/Mib Future. La formula da applicare è la seguente:

MARGINI + (DRAWDOWN * 1,5)

Supponiamo di aver acquistato un contratto sul future a 30.000 punti. Il controvalore totale sarà pari a 150.000 euro (infatti, 30.000 * 5 = 150.000 euro, dove 5 è il moltiplicatore del contratto). Il nostro broker per questa operazione ci richiede un margine pari al 7,75% del controvalore del contratto, per cui ci verranno addebitati sul conto corrente 11.625 euro (150.000 * 0,0775). Inoltre, il drawdown calcolato sul nostro trading system è pari a 2.000 euro. Applichiamo la formula precedente e vediamo di quanto avremo bisogno per aprire una sola posizione sul contratto S&P/Mib Future.

11.625 + (2.000 * 1,5) = 14.625 euro

Da questa semplice formula si può comprendere quanto sia importante, dunque, avere a propria disposizione una determinata cifra di denaro sul proprio conto corrente, in quanto una corretta capitalizzazione, abbinata ad una tranquillità operativa, ci farà superare indenni i momenti difficili del nostro sistema di trading senza subire grossi stravolgimenti emotivi e finanziari.

Esistono, in generale, molti approcci al money management e molte formule che possono funzionare. Quella precedente è certamente una formula elementare, ma al contempo ne esistono altre tutte caratterizzate da un unico denominatore comune: si aumenta la dimensione dell’investimento quando si sta guadagnando, mentre si diminuisce il capitale d’ingresso qualora si inizi a perdere. Non possiamo certo dire che esiste il sistema di money management “perfetto”, ma ogni trader potrà certamente trovare quella che maggiormente si adatta al proprio stile ed alla sua operatività.

LA FORMULA DI KELLY

Una delle formule di money management più conosciute è sicuramente la Formula di Kelly, che prende il nome dal matematico che la mise a punto. Si tratta di una formula molto nota ai trader ed anche ai giocatori d’azzardo. E’ stata utilizzata con enorme successo anche da Larry Williams, il trader più famoso al mondo, che adottandola riuscì a portare un conto iniziale di 10.000 $ a 1.147.000 $ in meno di un anno.

John Kelly, che lavorava per il Bell Laboratory presso l’AT&T, sviluppò originariamente la formula per studiare i problemi di noise sul segnale che si presentavano nelle telefonate in lunga distanza. Subito dopo che il metodo venne pubblicato, però, la comunità dei giocatori d’azzardo professionisti si rese conto del potenziale che il metodo esprimeva quando veniva applicato allo studio dell’ottimizzazione delle puntate delle scommesse (bet sizing) sulle corse dei cavalli.
Il sistema permetteva ai giocatori di massimizzare la scommessa ottimizzandola per il lungo periodo. Attualmente la Formula di Kelly è utilizzata da molti come sistema di money management non solo nei giochi d’azzardo ma anche nelle attività di investimento.
La formula di Kelly ci indica la percentuale del capitale (F) da utilizzare in ogni operazione:

F = W – (1 – W) / R

Dove:
– W rappresenta la percentuale di vincita del sistema (winning probability), cioè la probabilità che ogni singola operazione si traduca in un risultato positivo;
– R è il rapporto tra trade in vincita e trade in perdita (winAverage/lossAverage ratio), cioè il valore medio delle operazioni chiuse in guadagno diviso il valore medio delle operazioni concluse in perdita.

Vediamo, dunque, quali sono i passaggi da seguire per mettere in pratica la Formula di Kelly:
1) Registriamo le ultime 50-60 operazioni sul mercato. Prendiamo la lista delle operazioni effetuate con il nostro broker oppure, se utilizziamo un trading system meccanico, effettuiamo un back testing dello stesso, registrando i valori ottenuti.
2) Calcoliamo il valore di “W”, cioè le probabilità di vincita. A questo proposito, dividiamo il numero delle operazioni che hanno generato un profitto per il totale delle operazioni effettuate (positive e negative). Il risultato sarà un numero compreso tra 0 e 1. Ad esempio su 50 operazioni effettuate, di cui 35 chiuse in gain e 15 chiuse in loss, W sarà uguale a 35/50 = 0,7.
3) Calcoliamo “R”, cioè il rapporto “winAverage/lossAverage”. Dividiamo il valore medio del gain generato dalle operazioni positive per il valore medio dei loss. Ad esempio: media delle operazioni in gain = 500 euro; media delle operazioni chiuse in loss = 300 euro; R = 500/300 = 1,66.
4) Inseriamo i valori W e R ottenuti, nella Formula di Kelly.

F = 0,7 – (1 – 0,7) / 1,66 = 0,7 – 0,3 / 1,66 = 0,4 / 1,66 = 0,24

La Formula produce come risultato un numero sempre minore di 1. Esso indica la dimensione (size) della posizione che dovrebbe essere assunta sul mercato, cioè la percentuale di capitale del nostro portafoglio con la quale dovremmo assumere la posizione sul mercato.

In base al nostro esempio abbiamo ottenuto F = 0,24, cioè dovremmo utilizzare il 24% del nostro portafoglio. Se disponiamo sul nostro conto corrente di una cifra pari a 100.000 euro, utilizzeremo 24.000 euro (100.000*0,24). Per conoscere il numero di contratti da utilizzare, bisogna dividere questa cifra per il margine iniziale richiesto dal nostro broker. Se, ad esempio, il margine richiesto è di 2.400 euro, utilizzeremo 10 contratti (24.000/2.400). Questo sistema, in sostanza, ci suggerisce quanta parte del nostro portafoglio bisogna “diversificare” in ogni singolo asset.

Il sistema richiede comunque anche un senso pratico, al di là di quello che potrebbe risultare applicando i dati statistici alla formula di Kelly: sarebbe giusto non investire mai una somma superiore al 20-25% del portafoglio in un singolo asset. Una posizione superiore a questa percentuale sarebbe un rischio troppo elevato per chiunque, almeno nel lungo periodo.

Questa formula, nata per assistere i giocatori di blackjack, incappa in un errore concettuale in quanto trascura importanti parametri di valutazione come il drawdown del sistema, il numero delle operazioni in perdita, la volatilità del mercato, ecc. Il blackjack è diverso dal trading: in questo gioco la perdita è limitata al valore delle fisches che si puntano ed anche il guadagno dipende da quanto si punta. Nel trading i guadagni e le perdite possono assumere valori molto diversi. A volte si guadagna tanto ed a volte pochissimo. Lo stesso discorso vale per le perdite: l’andamento è casuale.

Articolo a cura del Nicola D’Antuono
Per contatti
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Bibliografia:
– Enrico Malverti, Money management professionale (2005), Experta S.p.A.
– Larry Williams, I segreti del trading di breve termine (2002), Trading Library Srl
– Stefano Calamita, Mai più perdite in borsa (2003), Experta S.p.A.
– www.arezzotrade.com

n questo breve corso, strutturato in diversi articoli, si cercherà di descrivere in modo semplice ma preciso i principi dell’analisi tecnica candlestick. Fondamentalmente, sono due i modi di rappresentazione dei dati di borsa che ogni giorno il 99% dei traders studia: il grafico a barre e il grafico a candele.
Lo studio del grafico a candele, è una disciplina molto antica e ricca di fascino, tale da essere diventata una vera e propria branchia dell’Analisi tecnica chiamata candlestick analisys.

Colui che notò l’errore nella Formula di Kelly fu Ralph Vince. Egli propose di utilizzare una percentuale fissa del capitale a propria disposizione in ogni singola operazione. Egli chiamò questa formula Optimal F.

OPTIMAL F

Questa formula rappresenta una delle più grandi innovazioni nel money management degli ultimi 15 anni. Ralph Vince suggerì di impiegare in ogni trade una percentuale fissa del capitale disponibile ottenuta ottimizzando una quantità frazionale (che chiamiamo f) da investire in ogni operazione allo scopo di massimizzare i profitti di un trading system.

Utilizzando questa formula, nelle fasi positive abbiamo un miglioramento della percentuale di successo e del rapporto di vincita media su perdita media. Così facendo, però, la frazione del capitale da impiegare aumenta molto velocemente. Allo stesso modo, quando ci si imbatte in una lunga striscia negativa, il numero di contratti diminuisce molto rapidamente. Il rischio è dunque quello di incappare in una serie di drawdown elevati che possono facilmente aumentare la volatilità della nostra equity line.

Supponiamo di avere un profitto medio a trade di 200 euro e che facciamo mediamente 10 operazioni al mese. Inoltre, aggiungiamo il numero di contratti ogni 10.000 euro di guadagno. Così dobbiamo aspettare 50 trade o cinque mesi per aggiungere un ulteriore contratto. Poi basteranno due mesi e mezzo per passare da due a tre contratti, un mese per arrivare a sei contratti, 25 giorni per arrivare a sette contratti, 21 giorni per arrivare ad otto. Diciotto giorni più tardi saremo arrivati a nove contratti e dopo circa 16 giorni a 10 contratti.

Supponiamo che subiamo ora una grossa perdita, diciamo 600 euro per ogni contratto, arrivando a perdere 6.000 euro in tutto. Siccome non abbiamo ancora perso 10.000 euro, utilizziamo sempre 10 contratti. Perdiamo poi altri 6.000 euro, per cui siamo arrivati ad una perdita totale di 12.000 euro con due operazioni. Subiamo successivamente una nuova perdita, la terza di fila, con una media di 400 euro per contratto su nove utilizzati. Abbiamo perso altri 3.600 euro. Il drawdown è davvero spaventoso: – 15.600 euro.
Certamente riducendo il numero di contratti più velocemente, ci si sarebbe imbattuti in perdite molto inferiori. Quindi, l’Optimal F ha il difetto di portare ad una veloce crescita del numero dei contratti generando drawdown molto pesanti che non vengono presi in considerazione nel calcolo della quantità ottimale. Non esiste, dunque, un limite alle perdite potenziali e non viene considerato il livello di tolleranza al rischio del trader.

IL TRADING A FRAZIONE FISSA

Un altro modo per identificare la porzione di capitale da utilizzare in un trade è basato sul trading a frazione fissa (fixed fractional trading). Questo sistema di position sizing è stato utilizzato per la prima volta da Ryan Jones e prevede di calcolare un rapporto fisso tra i soldi che si devono guadagnare per aggiungere un ulteriore contratto. Il capitale viene diviso per il margine iniziale richiesto dal broker sullo strumento finanziario in questione ed aumentato del massimo drawdown regisrato in passato dal proprio trading system. La formula è:

N. CONTRATTI = (CAPITALE / MARGINE + DRAWDOWN)

Supponiamo di avere a disposizione 50.000 euro sul nostro conto corrente e di voler acquistare qualche contratto sull’Euro Bund Future. Il margine richiesto dal nostro broker su questo future è di 1.800 euro. Ipotizziamo che il nostro massimo drawdown è stato di 3.000 euro. Il numero di contratti da acquistare sarà: 50.000 / 1.800 + 3.000 = 10.

La regola di Ryan per aggiungere un contratto è quello di avere un rapporto fisso tra soldi che si devono guadagnare ed il capitale totale a disposizione. Se si devono guadagnare 5.000 euro per aggiungere un contratto partendo da un capitale di 10.000 euro, se ne dovranno guadagnare 50.000 partendo da un capitale di 100.000 euro per passare da 10 a 11 contratti. Quindi, se servono 15 operazioni per aggiungere un contratto, senza prendere in considerazione il capitale a propria disposizione, ce ne vorranno sempre 15. A questo proposito Ryan Jones utilizza una variabile arbitraria in una formula che esprime il rapporto del capitale con il drawdown. Precisamente egli utilizza come rapporto due volte il drawdown.

N. CONTRATTI = (CAPITALE +/- PROFITTO/PERDITA PRECEDENTE)
DRAWDOWN * 2

Quindi, il numero di contratti da utilizzare sarà ottenuto dividendo il capitale (aumentato o diminuito dal risultato netto dell’operazione precedente) per il doppio del drawdown.

LA FORMULA DI LARRY WILLIAMS

Larry Williams, il più noto e popolare trader degli ultimi 30 anni, era comunque insoddisfatto dell’elevata volatilità della sua equity line generata adoperando la Formula di Kelly. Il suo sistema di money management rappresenta l’evoluzione della formula di Kelly e che lui stesso ha definito come la “chiave per il Paradiso”. La Formula che Williams ha dichiarato pubblicamente di aver utilizzato nel corso della sua attività di trader e di money manager è la seguente:

N. CONTRATTI = (CAPITALE * % RISCHIO) / MASSIMO DRAWDOWN

La percentuale di rischio è un parametro soggettivo che ci indica la tolleranza media al rischio del trader, per cui cambiando questo parametro i risultati generati dal sistema saranno diversi da trader a trader.
Supponiamo di avere a disposizione un capitale di 50.000 euro e che siamo disposti ad accettare un rischio del 10%. Inoltre, il nostro trading system ha generato in passato un massimo drawdown di 4.000 euro. Ecco come applicare la Formula di Williams:

N. CONTRATTI = (50.000 * 0,1) / 4.000 = 1 CONTRATTO

La cifra che dovremo investire verrà calcolata in relazione al massimo drawdown generato in passato dal nostro sistema di trading ed in base alla percentuale di rischio che siamo disposti ad assumerci. La variabile caratterizzata dalla percentuale di rischio è certamente molto innovativa e permette di passare da rischi molto conservativi (5%) a rischi medi (10-12%) fino ad arrivare a rischi elevati (15-18%) o addirittura elevatissimi (20%).
Con questo approccio Larry Williams ha guadagnato milioni di dollari e, secondo il suo parere, in questa formula sono custodite le chiavi della cassaforte che contiene i segreti del regno della speculazione finanziaria.

Articolo a cura del Nicola D’Antuono
Per contatti
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Bibliografia:
– Enrico Malverti, Money management professionale (2005), Experta S.p.A.
– Larry Williams, I segreti del trading di breve termine (2002), Trading Library Srl

In questo breve corso, strutturato in diversi articoli, si cercherà di descrivere in modo semplice ma preciso i principi dell’analisi tecnica candlestick. Fondamentalmente, sono due i modi di rappresentazione dei dati di borsa che ogni giorno il 99% dei traders studia: il grafico a barre e il grafico a candele.
Lo studio del grafico a candele, è una disciplina molto antica e ricca di fascino, tale da essere diventata una vera e propria branchia dell’Analisi tecnica chiamata candlestick analisys.

Abbiamo visto negli articoli precedenti vari sistemi di money management che hanno fatto la fortuna dei più grandi trader mondiali. Si tratta di sistemi basati per lo più su concetti matematici ed interpretazioni statistiche che a volte possono spaventare il “piccolo” trader, poco propenso ad utilizzare regole complesse che richiedono abbastanza tempo per la verifica dei dati storici (feedback) e successiva implementazione del proprio trading system.

Il sistema di money management che di seguito verrà illustrato è quello da me utilizzato per controllare quotidianamente il rischio assunto in ogni posizione, in modo tale da non esporre il mio capitale a perdite troppo elevate. Il metodo che utilizzo è stato costruito sulla scìa di quello adottato da uno dei più grandi miti di Wall Street: Larry Hite.

Hite punta particolarmente sulla gestione del rischio per ottenere determinate performance, basandosi su un concetto base che prevede la massimizzazione della regolarità dei profitti piuttosto che l’entità degli stessi. Il suo approccio al mercato è di tipo statistico: poco spazio alle parole, molto ai numeri, alle probabilità, alle percentuali.

Tre sono i capisaldi del suo metodo di gestione:
1- non operare mai in controtendenza (seguire, quindi, sempre una strategia “trend follower”);
2- diversificare (operare su tutti i mercati mondiali);
3- volatilità (se i mercati diventano troppo volatili, è meglio non assumere posizioni).
Partendo da questi presupposti, ho cercato di attivare un metodo che mi permettesse di rischiare poco e di non andare mai contro la tendenza principale del mercato.
La pianificazione del trade, seguendo il mio sistema di regole, consta di queste fasi:
1- Capitale d’ingresso;
2- prezzo d’ingresso;
3- stop loss iniziale;
4- primo target.

CAPITALE D’INGRESSO

Innanzitutto, come Hite, non rischio mai più dell’1% del mio capitale totale in singole operazioni, in modo tale da essere completamente indifferente a qualsiasi mutamento del mercato.
Supponiamo, ad esempio, di avere a disposizione 20.000 euro sul nostro conto corrente. Per ogni trade rischieremo al massimo l’1% del capitale iniziale e cioè 200 euro. Se avessimo individuato un’occasione d’acquisto sul titolo ABC con uno stop loss del 5%, il capitale da utilizzare in questa operazione sarà pari a 4.000 euro (200/0,05). Per sapere quante azioni bisogna acquistare, andiamo a dividere l’importo per il prezzo d’acquisto del titolo in questione. Ad esempio, se il titolo quota 10 euro acquisteremo 400 azioni (4.000/10).
Le formule che abbiamo utilizzato vengono di seguito riportate:

MAX PERDITA PER TRADE = CAPITALE INIZIALE * % MAX DI PERDITA

CAPITALE D’INGRESSO = PERDITA MAX PER TRADE / % STOP INIZIALE

Il discorso riguardante l’entità del capitale iniziale da utilizzare in ogni trade cambia quando opero con titoli poco liquidi. Chi opera sul mercato italiano si sarà reso conto che la stragrande maggioranza dei titoli presenti sul listino milanese presenta una certa caratteristica: mancanza di liquidità.

Si possono definire liquidi quei titoli che presentano uno spread denaro-lettera di un solo tick e con proposte di negoziazione molto consistenti ambo i lati del book (ad esempio, sono liquidi principalmente i titoli dello S&P/Mib). I titoli illiquidi sono quelli dove lo spread è di solito dato da più di un tick e la consistenza delle proposte differisce molto in alcuni livelli di prezzo; i titoli sottili, invece, sono quelli dove la forchetta di prezzo è davvero molto larga, a volte anche di uno o due punti percentuali, con proposte poco consistenti nei vari livelli di prezzo.

Quando si opera con titoli illiquidi e sottili il rischio aumenta ulteriormente. Infatti, se il mercato ci viene contro, c’è il rischio di non riuscire a trovare una controparte disposta a scambiare il prezzo da noi desiderato. Il risultato si traduce in ulteriori costi di slippage perché il nostro livello di stop loss non è stato scambiato. Quindi le perdite possono diventare più consistenti rispetto a quelle che avevamo preventivato.

Il consiglio, soprattutto per i trader “in erba”, è quello di iniziare ad operare con titoli liquidi ed evitare in particolare i titoli sottili. Generalmente, questa schiera di titoli poco liquidi è caratterizzata da una forte volatilità, cioè da ampie escursioni medie giornaliere di prezzo. Per dosare il nostro capitale d’entrata possiamo allora utilizzare la volatilità come parametro di riferimento.
Supponiamo che mediamente il nostro capitale d’ingresso in ogni trade è pari a 4.000 euro e che la nostra operatività è rivolta verso titoli che presentano una volatilità storica a 50 giorni del 20% (volatilità di riferimento). Decidiamo ora di acquistare un titolo con una volatilità storica a 50 giorni pari al 40%. La porzione di capitale (F) da utilizzare in questo trade può essere ottenuta con questa semplice proporzione:

CAPITALE DI RIF. : VOLATILITA’ DEL TITOLO = F : VOLATILITA’ DI RIF.

Per cui:

F = CAPITALE DI RIF. * VOLATILITA’ DI RIF. / VOLATILITA’ DEL TITOLO

In base al nostro esempio otteniamo:

F = 4.000 * 20 / 40 = 2.000 euro

 

GESTIONE DELLA POSIZIONE APERTA

Per quanto riguarda, invece, la gestione delle posizioni aperte, tendo a fissare sempre uno stop loss grafico. Supponiamo che voglia vendere allo scoperto il titolo ABC a seguito della formazione di un pattern ribassista. Lo stop loss iniziale verrà fissato un tick sopra il massimo del pattern. La distanza che va da questo punto fino al livello da me indicato per vendere allo scoperto rappresenta il rischio insito nella mia operazione.

Quando il rischio è troppo elevato, e quindi l’entità dello stop loss tende ad allargarsi, sono solito valutare se entrare o meno in un trade. Infatti, uno stop loss molto ampio potrebbe tradursi in una minora appetibilità del rapporto rischio/rendimento. Ragionando in un’ottica di breve periodo, è sempre bene partire con un rapporto risk/reward pari almeno a 1:3.

Il primo target viene identificato con una semplice occhiata al grafico del titolo in esame. Si tratta di collocare un ordine di liquidazione di tutta o parte della posizione assunta in prossimità di un livello critico del mercato (resistenza o supporto).
Quando il mercato diventa più volatile (ad esempio, durante movimenti parabolici), tendo ad utilizzare la strategia del 2*1: vendo, cioè, metà posizione al livello che mi permette di coprire il rischio iniziale portando contestualmente lo stop loss in pareggio.
Una volta raggiunto il primo target, scelgo tra due sistemi:
– stabilire un secondo target in prossimità di una nuova resistenza o di un nuovo supporto;
– uscire definitivamente sulla rottura della media mobile dei minimi degli ultimi quattro giorni (se sono al rialzo) o dei massimi (se sono al ribasso).

Articolo a cura del Nicola D’Antuono
Per contatti
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Bibliografia:
– Stefano Calamita, Mai più perdite in borsa (2003), Experta S.p.A.
– Pietro Di Lorenzo, Trading part time (2005), Trading Library Srl
– Remo Mariani, Nascita di uno speculatore di borsa (2005), Experta S.p.A.